Scoprire la Città

Ultima modifica 1 aprile 2021

Se un viaggiatore entrando…

Se un viaggiatore entrando in San Gimignano si chiedesse che cosa si accinge a visitare, dovrebbe provare a capire che tipo di posto è questo paese ancora coronato dalle sue mura; caratterizzato dal suo inconfondibile profilo turrito conosciuto in tutto il mondo; tagliato in due dalla strada che un giorno si chiamò Via Francigena e fu tra le più importanti della Cristianità; incastonato in mezzo a una campagna fra le più belle d’Italia; quasi in bilico fra le terre del giglio fiorentino e quelle sulle quali sventolò la balzana senese, ma altrettanto saldamente impiantato al centro del territorio di storia e di cultura valdelsane, che ebbe ed ha caratteristiche sue peculiari.

Il visitatore che entrasse nell’abitato e giudicasse frettolosamente dal numero dei turisti che, come lui, si trovano quotidianamente a “scalpicciare” sul vecchio tracciato della Franchigena, e deducesse che questa terra vive esclusivamente o prevalentemente di turismo commetterebbe un errore grossolano. L’economia sangimignanese è basata in primo luogo sulle industrie che affollano il fondovalle e che i visitatore ha attraversato in modo comprensibilmente distratto, magari senza degnare di uno sguardo un paesaggio che, come ogni altro del genere, non è entusiasmante e sicuramente è incomparabile con quello che si affaccia sulla cresta della collina dalla quale cominciano a spuntare presto le punte delle torri. Invece è questa la prima voce nel repertorio di strutture produttive, e il turismo non è nemmeno la seconda, perché a questo posto si insedia stabilmente l’agricoltura, soprattutto rappresentata dalla produzione specialistica di eccellenti vini: la Vernaccia – primo vino italiano ad essersi fregiato del titolo di prodotto a Denominazione  d’Origine Controllata (D.O.C.) nel 1966 e assurto nel 1993 alla promozione a Denominazione d’Origine Controllata e Garantita (D.O.C.G.) – ma anche il San Gimignano rosso che, da tempo, sta conquistando il suo spazio fra i vini di pregio.

Tra i prodotti dell’agricoltura, inoltre, a connotare questa terra c’è ormai da tempo una pianta resuscitata al vecchio splendore: lo zafferano, che dal 2005 gode della certificazione di Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.)

Lo zafferano (il crocus sativus dalla tostatura dei cui stimmi fiorali si ricava la spezia) sulle Colline di San Gimignano, aveva fiorito secoli fa: originario della Persia, nel territorio sangimignanese ci s’era trovato bene, tanto che nel XIII secolo i produttori locali lo vendevano su vari mercati italiani e lo esportavano fino in Egitto, in Tunisia, in Siria, in Terrasanta.

Usato come pianta officinale in farmacopea e come pianta tintoria, lo zafferano viene utilizzato fin dal Duecento anche in cucina, come testimonia proprio un documento sangimignanese del 1228 che ce lo mostra come condimento per le carni consumate da podestà e dai suoi soldati. Spezia preziosa, viene protetta a norma di statuto contro le adulterazioni e se ne fa uso al posto del denaro per pagare i soldati, per onorare le rate del mutui contratti dal comune o per rendere omaggio a imperatori (Federico II) e re (Carlo e Roberto d’Angiò). Il vescovo di Volterra se ne serve per corrompere i prelati della curia romana, ma questa è un’altra storia.

Lo zafferano è tornato da decenni a fiorire all’ombra delle torri grazie ad una associazione locali che ha coinvolto l’Università di Firenze e la Regione Toscana. Oggi, nella scala dei prodotti venduti a San Gimignano e conosciuti dai turisti, si colloca su un eloquente 5% ed è acquistato da quali il 4% dei visitatori. Dato interessante: sono tutti italiani. Gli stranieri continuano a ignorare questa spezia che ormai viene adoperata pressoché esclusivamente in cucina.

Al terzo posto delle attività produttive, arriva il turismo. Terzo, certo, ma con un impatto complessivo decisamente importante. Il turismo di massa non era un fenomeno sangimignanese prima della fine degli anni Settanta; adesso  un dato di evidenza macroscopica: si calcola che in un anno visitino San Gimignano, in media, più di due milioni e mezzo di persone, anche perché nella classifica delle località più conosciute della Toscana il paese si colloca al terzo posto ex equo con Pisa, dopo Firenze, la prima, e Siena, la seconda.

Ma se un viaggiatore, entrando in San Gimignano, avesse l’impressione che la dimensione prevalente è quella a misura di turista farebbe bene a ricredersi alla svelta, riflettendo sul fatto che questo piccolo paese di nemmeno 5 chilometri quadrati di centro storico e di poco più di 7.000 abitanti dispone di una serie di musei aperti continuativamente e di gallerie d’arte moderna e contemporanea; di un teatro intorno al quale ruotano una stagione musicale estiva e una stagione teatrale invernale; di una biblioteca di oltre 100.000 volumi; di numerosi centri e associazioni culturali; di due scuole di musica; una di danza; una banda musicale e un coro. Dovrebbe riflettere, il nostro curioso viaggiatore, sul fatto che il paese ospita rassegne d’arte contemporanea e che è stato scelto come sede di un master universitario dell’Università di Siena.

Allora capirebbe, il viaggiatore, che San Gimignano non è solo le sue splendide torri, né solo il tessuto urbano, o l’ingente patrimonio artistico che chiese, palazzi e musei conservano (cose che, tuttavia, gli hanno valso, da parte dell’Unesco, il riconoscimento di un posto nell’Olimpo del patrimonio dell’umanità), ma che è anche un corpo vivo e attivo.

Se un viaggiatore entrando in San Gimignano si chiedesse che cosa si accinge a visitare, adesso forse avrebbe le idee un poco più chiare. Sta per visitare una terra che vive dentro i processi dinamici della contemporaneità; che non si culla in un tempo fuori dal mondo, ma si sforza di far convivere con la sua modernità il suo animo antico, la poderosa memoria storica e cuoturale stratificatasi nei secoli e che si respira e si sente in ogni momento. Basta che sia abbastanza sensibile, il viaggiatore, da capire come sentirla e come respirarla.

Quel che ne avrà in cambio sarà, probabilmente, difficile da dimenticare.

Alle radici dello sviluppo economico: usurai e mercanti

Fra il ‘200 e la prima metà del ‘300, quella Francigena che aveva contribuito a creare la fortuna del castello ha indirizzato il suo percorso principale a valle, favorita dalle bonifiche che ora consentono di viaggiare lungo l’Elsa più agevolmente rispetto al tratto di crinale. Ma se la nuova situazione avvantaggia adesso Castelfiorentino, Certaldo, Colle e Poggibonsi, non per questo San Gimignano resta tagliato fuori.

L’antico tracciato della strada resta in funzione, anche se relativamente meno frequentato di prima, ma, soprattutto, il castello rimane lo snodo per il collegamento fra la Francigena e la strada che da Siena va a Pisa attraverso la Val d’Era, e che lambisce Montignoso (non per niente ben controllato da San Gimignano che vi mantiene costantemente un suo contingente armato), Villamagna, Capannoli, Ponsacco e Pontedera. Questo percorso, tutt’altro che secondario, è molto utilizzato dai pisani, dai senesi e talvolta anche dai coigiani che evitano di passare in territorio fiorentino. …l’asse viario da e per Pisa sviluppa una fiorente corporazione di vetturali sangimignanesi che gestiscono una non trascurabile fetta di movimento delle merci.

Nel XIV secolo si conteranno in questa terra almeno 7 ospedali: quello di Santa Fina; il Santa Maria della Scala legato all’omonima istituzione senese; l’ospizio dei pellegrini in San Giovanni retto dai francescani; l’ospedale di Santa Croce nella Pieve; quello di donna Nobile in via delle Romite, che sarà unito al Santa Fina nel corso del ‘400; di Santa Croce dei disciplinati di Sant’Agostino, anch’esso unito al Santa Fina; dei lebbrosi, legato al culto del santo rettore Bartolo.

A sottolineare ulteriormente il ruolo di accoglienza del castello sono, poi, gli ordini monastico-militari legati, notoriamente, alla dimensione ospitali era. Dal Millecento sono presenti i Giovanniti e dagli anni Venti del ‘200 i Templari (i cui beni dentro le mura, al momento della soppressione, saranno incamerati proprio dall’altro ordine e la cui ex Mansio Templi, per ironia della sorte, nel 1450 ospiterà il postribolo pubblico). Entrambi gli ordini lasceranno le loro tracce nelle chiese di San Jacopo, di San Giovanni (poi San Francesco) e di San Bartolo. I bacini ceramici di fattura islamica che ancora oggi adornano la facciata della chiesa di San Jacopo al Tempio sono la più chiara testimonianza di un doppio influsso sul gusto dell’arredo urbano dell’epoca, debitore, da un lato, dei contatti con Pisa (dove è ampio il ricorso a questi ornamenti) e, dall’altro, delle suggestioni della cultura mediorientale veicolata dai cavalieri che hanno conosciuto l’Oltremare.

In questo primo Trecento, a San Gimignano si contrae la piccola proprietà contadina, caratteristica dei secoli precedenti, a vantaggio di quella media e grande condotte prevalentemente a mezzadria e, in gran parte, in mano a famiglie ormai inurbate. Ma contrazione non vuol dire sparizione: la terra non è solo in mano ai ricchi, e non sono pochi i sangimignanese che posseggono piccoli appezzamenti di terra costituiti da orti, vigne, campi, e che vivono a uscio e muro con i tanti contadini che risiedono dentro il castello.

Il settore agricolo produce (ancorché in modo insufficiente) le derrate che servono al sostentamento della popolazione e in bestiame che viene comprato e venduto in un attivo mercato che funziona fino al ‘400. Ma, soprattutto, dalla terra sangimognanese escono le due produzioni di pregio della Vernaccia e del Vino Greci, da un lato, e dello zafferano, dall’altro.

La storio che il vitigno della Vernaccia sarebbe arrivato a fine ‘200 dalla Grecia è pura leggenda ma, in fin dei conti, è abbastanza ozioso chiedersi da dove è venuto, se da Vernazza delle  Cinque Terre o da altrove. E’ un fatto che in questo secolo la Vernaccia inizia il suo percorso di vino di qualità, celebrato, oltre che dai conosciutissimi versi del Redi nel Bacco in Toscana, anche dall’apprezzamento di Pio II e dal rammarico del bottigliere di Paolo III, Sante Lancerio, il quale, all’inizio del ‘500, si lamentava che San Gimignano non ne producesse abbastanza. Accanto ad essa, il Greco condivide (almeno fino al ‘600, epoca dopo la quale non se ne trova quasi più traccia) la posizione di vino di lusso, costosissimo, tanto che all’inizio del ‘400 un barile costa il doppio di una analoga quantità di vino comune.

Anche lo zafferano costituisce un prodotto di pregio: a comprarlo vengono i tintori da numerose località, e per esso si muovono perfino quelli di Firenze. A metà del ‘200, San Gimignano detiene pressoché il monopolio delle vendite di questa sostanza nella Toscana Centrale.

Tuttavia, ciò che fa la ricchezza di San Gimignano in questi secoli non è tanto l’agricoltura in se stessa, quanto, piuttosto, il modo in cui i proprietari agricoli (aristocratici o borghesi che siano) reinvestono i proventi che arrivano dalla terra.

L’attività che caratterizza i sangimignanesi è il prestito di denaro, fatto fruttare e moltiplicato, a volte vertiginosamente, con operazioni disinvolte o decisamente usuraie. Ne sanno qualche cosa i vescovi di Volterra, perennemente indebitati, che devono ricorrere – oltre che ai fiorentini e ai senesi – anche ai prestatori del castello che una volta era il loro, sottostando a tassi di interesse altissimi. E lo sanno anche i contadini delle stesse campagne sangimignanesi, vittime di operazioni di speculazione tramite prestiti usurai e anticipi sui futuri raccolti, una pratica che finisce quasi inevitabilmente per strangolare il piccolo coltivatore e mettere le sue terre alla mercé dell’imprenditore. I signori del denaro, infatti, approfittano della condizione di bisogno del contadino, acquistano in contanti e a prezzi stracciati i raccolti del prossimo anno. Né si accontentano, perché non di rado li pretendono fino ai 6 anni successivi, con la conseguenza di assicurarsi un’incetta di grano e olio a basso costo, da re immettere poi in vendita a prezzo di mercato.

Il denaro così accumulato viene ulteriormente reimpiegato in operazioni di prestito, questa volta a lungo raggio.

L’altro importante settore nel quale i sangimignanesi fanno fortuna è, poi, quello della mercatura. A essere messi sui mercati non sono tanto i prodotti agricoli (sufficienti per creare ricchezza, come si è visto, ma non sovrabbondanti da poter costituire un commercio significativo), né, meno che meno, i prodotti di una manifattura che si mantiene sempre su livelli dignitosi ma modesti. I mercanti di San Gimignano fanno soldi con l’import-export, rilevando merci sui terminal commerciali e ridistribuendole sugli altri mercati.

Già dal primo ‘200 l’attività mercantile è ben strutturata: nel 1219 vengono stipulati accordi con Castelfiorentino per la protezione dei reciproci uomini d’affari, e successivamente analoghi patti vengono ratificati con San Miniato, Colle Val d’Elsa, Poggibonsi, Siena e Firenze. Nei confronti di Volterra si ricorre al terrorismo psicologico, mettendo in guardia, nel 1239, i mercanti che si recano a Pisa e invitandoli a stare attenti quando percorrono la strada di Villamagna perché rischiano di essere assaliti e derubati dai volterrani.

Per la loro attività gli uomini d’affari del castello valdelsano creano un rapporto privilegiato con Pisa dove, negli anni Trenta del ‘200, la presenza dei mercanti sangimignanesi è già così significativa che per loro viene costruito un ricovero in Kinzica, lungo l’Arno, in grado di ospitare, oltre alle persone, anche una cinquantina di muli e i colli delle mercanzie. Il rapporto preferenziale e la sicurezza della quale i valdelsani possono godere in questa città è sottolineata dalla proposta di costruire un analogo fondaco a Firenze e della decisione negativa in merito.

Da Pisa non arrivano a San Gimignano solo le merci, ma anche un certo modo di decorare gli edifici, come accade con i già ricordati bacini ceramici che, secondo un gusto non solo pisano, ma certo tipicamente pisano, adornano le facciate di San Jacopo al Tempio, alcune case torri e, prima di essere rimossi, la stessa pieve, a testimonianza di un legame che non si limita alla sola sfera dell’economia ma si allarga a maglie più larghe dei rapporti fra la città e il castello valdelsano.

Nel 1267 Carlo D’Angiò e Firenze non sentono ragioni e impongono l’aut aut: o con noi o con Pisa a vostro rischio. E San Gimignano deve rompere con la città della costa e paga la forzata scelta di campo con il disastroso blocco della lana, delle altre stoffe, del cuoio, del formaggi, dell’allume, del grano, delle spezie e di quant’altro fino ad ora acquistava sulla piazza pisana e riesportava.

Con Firenze continua l’intermediazione di prodotti agricolo in cambio di lana, cuoio, seta, canapa e altro; patti con varie città e castelli della Toscana centrale per la protezione dei traffici e la rinuncia al diritto di rappresaglia si incontrano ripetutamente fino al Trecento; i traffici dei mercatores di questa terra si estendono nel Regno di Napoli e, dopo la caduta dell’ultimo presidio cristiano di San Giovanni d’Acri e l’abbandono del medio oriente nel 1291, si rivolgono più di prima verso la Sicilia. Nel 1299 alcuni sangimignanesi lavorano in società con una azienda di imprenditori di Barcellona.

Alla fine del Duecento viene introdotta la lavorazione della lana a opera di fiorentini e con l’apporto di manodopera specializzata senese. Nel 1334 i lanaioli sono già riuniti in corporazione con un loro statuto.

Dall’inizio del  ‘200,  nel territorio di San Gimignano, si produce anche il vetro, ma, ancora una volta, questa manifattura non assume dimensioni di consumo sovra locale, così come non le assume la ceramica. Quest’ultima gode del periodo di massimo sviluppo nel ‘400, ma ciò che esce dalle fornaci è quasi interamente assorbito dal mercato interno, benché i ceramisti sangimignanesi siano tutt’altro che rozzi: nel Cinquecento li troviamo a esporre la loro tecnica a Pomarance e, addirittura, a Roma, in società e in collaborazione con quegli indiscussi maestri di tale arte che sono i faentini.

Tratto da Duccio Balestracci, Breve Storia di San Gimignano, Pacini Editore, 2007